Perchè la sessualità è ancora un tabù?
Perchè parlare di sessualità crea spesso imbarazzo? Perchè attorno ad essa ci sono tanti tabù?
La sessualità è un bisogno umano che conserva anche aspetti ludici e di piacere. Se un alieno dovesse leggere queste parole rispetto alla sessualità, la paragonerebbe allo sport, al cibo… non troverebbe quindi alcun imbarazzo a riguardo. Questo perché è un alieno e quindi la società non lo ha influenzato.
È piuttosto curioso infatti che una cosa naturale come la sessualità desti così tanto imbarazzo. Per non parlare poi delle parole per così dire…proibite: “pene” “vagina” “sesso”. Parole che se pronunciate provocano disagio e fanno arrossire. E badate bene, tali reazioni si verificano solamente quando si utilizzano questi termini o quando si parla di sessualità.
Parlare di sessualità crea imbarazzo perché nel tempo, la cultura ci ha portati a vederla come un vizio, come qualcosa di “sporco” e trasgressivo. Pensiamo a quello che i poveri maschietti adolescenti si sentivano dire: “Se ti masturbi diventi cieco!”.
Questo era il tentativo di disincentivare la masturbazione…quasi come fosse un reato al pari di un furto o una rapina.
Buona parte della “colpa” – se così possiamo chiamarla – di questa visione distorta della sessualità è da attribuire alla religione che da sempre ha sentenziato sui comportamenti morali tra i quali vi erano anche quelli sessuali. È stato un tentativo di regolare il comportamento sessuale degli esseri umani. In nome dell’etica e della moralità si sono imposte “restrizioni sessuali” che non hanno condotto però al risultato sperato. Infatti le persone difficilmente sono state “devote” a tali restrizioni, tuttalpiù, si nascondevano, negavano…ma non si astenevano, né dai rapporti, né dalla masturbazione. E così la sessualità ha assunto negli anni la reputazione di qualcosa da “nascondere”…ma non da non fare.
Non dimentichiamoci inoltre che i tabù relativi alla sessualità, arrivano spesso anche da contesti e persone molto importanti come la famiglia e la scuola…e tutto questo però può avere gravi conseguenze.
Il bambino che cresce con un’idea distorta della sessualità, sarà un adulto che vivrà questa dimensione con disagio. Una bambina che cresce con l’idea che si debba fare sesso solo per procreare, si sentirà una persona sbagliata se desidererà farlo per altri motivi.
Molte disfunzioni sessuali nascono proprio da qui. Da una mancata educazione sessuale da parte degli adulti di riferimento, da una mancata conoscenza dell’anatomia, da idee distorte riguardo il piacere sessuale. La maggior parte delle disfunzioni sessuali non hanno causa organica…ma psichica.
E ricordiamoci che i giovani e gli adolescenti che non trovano in famiglia o a scuola, le risposte ai loro interrogativi circa la sessualità, le andranno a cercare altrove ed allora si affideranno alla pornografia, al “sentito dire”…con il rischio di trovarsi di fronte ad una realtà sessuale alterata riguardo e con il rischio di crearsi aspettative irrealistiche.
Il sesso quindi è più un fatto culturale che naturale. Per gli esseri umani non è naturale perché i principi, le credenze, gli stereotipi, gli aspetti etici e morali…lo sporcano. Lo spogliano della sua natura. È quindi qualcosa di normale, perché culturalmente accettato (più o meno tutti fanno sesso), ma non naturale.
Pensate al valore che viene attribuito alla classica “prima volta”, è un evento importante per la vita di ogni persona. Questo per dire che, se il sesso fosse naturale, la prima volta non avrebbe nessun tipo di significato. È la cultura che interviene ad influenzare la sessualità, ed ogni cultura lo fa in modo diverso.
Ecco perché risulta imbarazzante parlarne…sentiamo ancora il peso di tali prescrizioni etico-morali, nonostante, per essere onesti, negli anni si sono sempre più affievolite!
LA MIA AMICA ANSIA
Ansia…il solo pronunciare la parola provoca un nodo in gola, vero?
Ormai chiunque ne parla, chiunque l’ha sperimentata. Per molti è una compagna di viaggio e tutti l’hanno almeno una volta nella vita incontrata.
Non esistono quindi persone che hanno paure e altre no, chi ha l’ansia e chi no. Tutti hanno paura e tutti hanno l’ansia, la differenza sta solo nel modo in cui viene gestita. C’è chi rimane completamente sopraffatto dall’ansia e chi nonostante tutto, riesce a conviverci senza problemi.
Ora la domanda sorge spontanea… cos’è esattamente l’ansia?
L’ansia ha molto a che fare con la paura, infatti potremmo considerarla una sorta di evoluzione della paura. L’ansia è un emozione che fa parte di noi, del nostro essere persone.
È una preoccupazione per il dopo. Coinvolge l’immaginazione e la previsione degli eventi.
Infatti molto spesso l’ansia porta a crearsi veri e propri scenari apocalittici, a volte anche inverosimili. Ma dopotutto…l’ansia è così.
Questo se ci pensate può essere anche qualcosa di utile. In fondo la paura ha permesso la sopravvivenza dell’essere umano. E se siamo qui è perché i nostri antenati hanno avuto paura e si sono comportati di conseguenza.
Non è detto quindi che paura ed ansia facciano necessariamente male. Sono emozioni ed in quanto tali non possono essere sbagliate. Anzi, a volte possono farci stare al sicuro, possono evitare di farci fare qualcosa che in realtà non vorremmo fare. L’ansia ci da una ragione per rimanere nel posto dove ci sentiamo bene, a nostro agio.
Quindi, l’ansia o la paura non devono farci sentire sbagliati. Anche perché si comincia a provare disagio e malessere quando ci si convince che il modo in cui stiamo, quello che sentiamo…non va bene. E questo non è mai vero, noi andiamo sempre bene.
E poi, c’è un’altra cosa importante da dire, ovvero che c’è ansia e ansia. C’è quella patologica, che è materia di cura. Ha dei sintomi precisi, anche invalidanti e in grado di compromettere le normali attività della vita quotidiana. Quella che crea sofferenza. Non è quella a cui spesso ci riferiamo con le frasi idiomatiche del tipo: “Oddio che ansia!”.
E poi c’è l’ansia quella che a tratti può essere fastidiosa, ma in fondo ci permette di svolgere la nostra vita.
Quindi, ricapitolando, l’ansia è ritenuta una cattiva compagna di vita da eliminare perché sgradevole ed invadente.
Ma poco fa abbiamo detto che l’ansia è un’emozione, che a volte può salvarci la vita e che ci permette di proteggerci e non fare scelte che ci farebbero stare male, giusto?
E se l’ansia fosse in realtà un’ amica?
È vero, non si presenta bene. È quell’amica non proprio carina, non sempre simpatica e quindi l’istinto è quello di allontanarla, cacciarla via. Però ogni volta che la respingiamo, lei si incattivisce e torna ancora più arrabbiata di prima. In fondo, desidera solo essere ascoltata.
L’ansia però è parte di noi, è un pezzo di noi e per questo motivo, non può essere un male.
Ogni volta che qualcosa parte di noi è motivo di sofferenza, la tentazione è quella di eliminarla, dovremmo invece avere una prospettiva più positiva, che ci porta a capirla, interpretarla…non a scacciarla. Perché in fondo è qualcosa di noi che ci riguarda.
L’ansia quindi è un’amica che viene a portare un messaggio, che però non è di facile comprensione. Occorre decifrarlo. Bisogna ascoltarla e non mandarla via.
Quindi non dite mai ad una persona che soffre d’ansia “non ci devi pensare”, sbagliatissimo, anzi, deve fare l’esatto opposto, deve pensarci e sciogliere i nodi che crea l’ansia.
E poi comunque…diciamocelo francamente non serve a nulla dire di non pensarci, i pensieri non si spengono. Ed anzi, i pensieri non vanno non pensati (scusate il gioco di parole), ma riformulati, perché sono proprio essi a determinare l’ansia. L’ansia non è il problema, ma quello che c’è dietro.
Guarda il mio video sulla paura: https://youtu.be/XStzVUzX994
La forza della fragilità
A volte la vita ostacoli, difficoltà, e circostanze che mandano il cuore in frantumi. Ci si sente così più vulnerabili, deboli. Incombe la paura che possa succedere di nuovo e il timore di non riuscire ad affrontare nuovamente quella situazione così dolorosa. Altre volte, le “crepe” dell’anima arrivano dall’infanzia e così, ci si percepisce fragili. Non ci si rende conto però, che quella fragilità è la propria forza.
Per dimostrarvi che è così, vi racconterò una storia.
C’era una volta un contadino che ogni giorno portava l’acqua dalla sorgente al proprio villaggio in due grandi anfore ciascuna appesa all’estremità di un palo che lei portava sulle spalle.
Una delle anfore, durante il viaggio perdeva acqua perché vecchia e piena di crepe, L’altra, nuova e perfetta, conservava tutto il contenuto senza perderne neppure una goccia. “Non perdo neanche una goccia d’acqua, io!” faceva notare l’anfora nuova a quella vecchia. E quest’ultima si sentiva sempre più inutile e umiliata.
Un pomeriggio, la vecchia anfora decise di confidarsi con il padrone e gli disse: “Sono tremendamente dispiaciuta, per colpa mia sprechi tempo, fatica e soldi. Quando arriviamo al villaggio sono mezza vuota. Mi vergogno di me stessa, perdona la mia debolezza”.
Il giorno seguente durante il viaggio, il padrone si rivolse all’anfora vecchia e le disse: “Guarda il bordo della strada”. “È bellissimo! Tutto pieno di fiori!”, rispose l’anfora vecchia. “Hai visto che bei fiori? Questo è tutto merito tuo”, disse il padrone. “Sei tu che ogni giorno innaffi il bordo della strada. Io ho preso dei semi di fiori e li ho seminati lungo il cammino, senza saperlo né volerlo, tu li innaffi ogni giorno. È merito tuo se sono così belli”. Quel giorno, la vecchia anfora si sentì piena di gioia, riprese a sorridere e non si sentì più mortificata.
QUAL’È LA MORALE DI QUESTA STORIA?
Ci insegna che la fragilità, da molti considerata un difetto, è in realtà una virtù. Un valore. La propria fragilità potrebbe non piacere, eppure rivelarsi davvero preziosa. Ogni persona ha delle ferite, debolezze, eppure grazie ad esse è possibile fare grandi cose. Ognuno di noi ha dei limiti eppure sono questi che ci rendono individui unici. Non bisogna sottoporli a giudizio, ma semplicemente scovare il loro lato positivo. È solo osservando con attenzione le proprie fragilità e prendendone consapevolezza che è possibile trovare punti di forza nelle proprie debolezze…che poi non le chiamerei debolezze o imperfezioni, ma peculiarità. Occorre prendere le distanze dall’idea di perfezione come valore, il rischio è quello di non accontentarsi mai, e si è quindi destinati all’insoddisfazione perenne. C’è poi un altro importante significato in questa storia: la condivisione. Confrontarsi, esprimere le proprie emozioni, confidarsi aiuta a diminuire il peso del proprio malessere. Non solo, ma un aiuto esterno può fornire un altro punto di vista, un altro modo per vedere la realtà. Non esiste infatti una sola realtà, ma tante quante sono gli occhi di chi guarda. Quella realtà che si tende a vedere come esclusivamente negativa, potrebbe avere un lato roseo però difficile da scorgere, e che continuerebbe a rimanere in ombra se qualcuno non ci aiuta a vederlo. Ed è proprio quello che fa lo psicologo e lo psicoterapeuta, offre i propri occhi per riuscire a guardare il mondo da un’altra prospettiva. Pone domande, mette in discussione pensieri e credenze. Non da consigli, ma offre una lettura differente della realtà lasciando alla persona l’opportunità di scegliere come vivere al meglio la propria vita.
L'utilizzo del colore nel marketing per suscitare emozioni: l’aiuto che offre la psicologia
Viviamo in un mondo a colori ed essi sono parte della nostra esistenza. Attribuiamo loro significati e ruoli.
Prendiamo ad esempio il matrimonio. Il vestito bianco della sposa è ormai considerato una regola, ma non è sempre stato così. Nel Medioevo la sposa vestiva con abiti sgargianti, impreziositi da pietre preziose ed ornamenti di ogni genere. Il mito del vestito da sposa rigorosamente bianco nacque nel 1840 con il matrimonio della Regina Vittoria d’Inghilterra.
Quando la nostra mente è piena di pensieri ed emozioni discordanti, è difficile fare qualunque cosa in maniera consapevole ed efficace, ma soprattutto, senza un continuo rimuginio successivo.
Pensiamo però alle culture non Occidentali. Per loro, il bianco, è il colore del lutto. Questo indica la variabilità di significati che il colore può assumere in base alla cultura di riferimento.
Se ti chiedessi di indicarmi i colori che ti ricordano l’India, immagino che il primo pensiero sarebbe quello di un tripudio di colori che va dal rosso, al fuxia, al verde. Mentre l’Europa, ma il mondo occidentale in generale, viene accostato a tonalità più di tipo pastello.
Tutto questo per sottolineare come i colori ed i suoi significati siano variabili da cultura a cultura e questo è importante soprattutto in un campo: quello del marketing.
Quando si lancia un nuovo prodotto infatti, oltre alle caratteristiche specifiche, è fondamentale la sua presentazione, che è data dal logo e dal packaging. Inutile dire che nella creazione di questi elementi, la scelta del colore è di primaria importanza. Per rendere efficace logo e packaging occorre tenere conto del target a cui ci riferiamo. Inoltre ricordiamoci che diverse tonalità e diversi colori inviano al consumatore, segnali totalmente differenti e attivano emozioni totalmente diverse… perché si, emozioni e colori, sono strettamente collegati. Le parole passano in secondo piano rispetto alle immagini e ai colori, perché hanno una maggiore forza evocativa.
Immagino che ti starai domandando: “Cosa c’entra la psicologia con tutto questo?” C’entra, eccome se c’entra. Per “essere scelti” dal cliente, occorre attrarlo, e per far si che questo accada, occorre conoscere la sua mente, oltre al significato dei colori.
Ricordi cos’ho detto prima? Ogni colore suscita un’emozione. In principio è importante quindi decidere quali sensazioni si vogliono suscitare nel cliente e poi scegliere l’accostamento di colori e l’immagine che meglio può riuscire nell’obiettivo.
Per fare qualche esempio: il blu scuro induce stati emotivi di tipo ansioso o depressivo. Non è un caso se in inglese l’espressione “i feel blue” si utilizza per comunicare la propria tristezza. E ancora…se ti è capitato di vedere il film “inside out” la tristezza era proprio rappresentata da un personaggio di colore blu. Al contrario il giallo induce felicità e serenità.
La psicologia diviene un valido aiuto al marketing per assolvere all’obiettivo di riconoscibilità del brand, ovvero la capacità di associare o identificare un prodotto dal marchio.
Da molte ricerche è emerso che ciò che aumenta la riconoscibilità del brand è proprio il colore. Occorre quindi trovare la formula vincente, quella che quando il consumatore pensa al prodotto, lo identifichi con un determinato brand. Solo in questo modo potrà ricordarsi di te e del tuo prodotto. Come fare? Molto semplice! Anzi, no, non è affatto semplice…ma si può fare. Prima di tutto, identifica i valori aziendali e del prodotto, e scegli i colori che meglio si adattano. Se per esempio la tua azienda commercializza prodotti biologici, orientarsi su colori pastello o sul verde potrebbe essere una strategia vincente. Inoltre, se possibile, meglio evitare colori o accostamenti di essi già utilizzati dalla concorrenza. Ricorda, riconoscibilità significa unicità.
Occorre poi essere coerenti nel riproporre i colori scelti. Questo significa che, occorre fare in modo che l’imballo, il negozio fisico, il sito web, abbiano colori uguali o simili in modo da creare una linearità.
Per concludere, come avrai capito, i colori hanno un forte impatto sul comportamento di acquisto.Se il consumatore è alla ricerca di un prodotto con specifiche caratteristiche, la sua attenzione sarà attirata da colori che evocano quelle stesse qualità. Per esempio la freschezza di un dentifricio viene richiamata dal bianco, dal celeste o dal verde.Ricordati che il consumatore ha 90 secondi per farsi un’idea del prodotto, ed in questo processo, i colori, svolgono un ruolo fondamentale.
Le frasi di senso comune
“L’amore è cieco”, “ è intelligente ma non si applica” , “Una volta ci si divertiva con poco” , “Si stava meglio quando si stava peggio”, “meglio un uovo oggi che una gallina domani”.
Vi ricordano qualcosa queste esclamazioni? Immagino di si. Sono proprio loro, le frasi di “senso comune”.
Come sosteneva Giambattista Vico: “sono un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano”. Se in alcuni casi potrebbero sembrare anche veritiere, le frasi di senso comune sono in alcuni casi, frutto di pregiudizi, in altri invece si originano da un pensiero che non è però sostenuto da evidenze reali. Ma come nascono le frasi di senso comune?
Forse non vi stupirò nel dire che si originano da errori di pensiero, in “psicologichese”: bias cognitivi.Altro non sono che modalità di ragionamento, giudizi o pregiudizi disfunzionali perché basati su un’interpretazione non efficace delle informazioni. Va da sé che se, le frasi di senso comune sono formulate con queste premesse, sono destinate a “portarci fuori strada”.
Se pensiamo poi, che questi errori di ragionamento si tramandano da persona a persona, di generazione in generazione, è possibile comprenderne l’influenza.
Vediamo nello specifico quali sono i bias cognitivi che portano a far nascere il “senso comune”:
BIAS DEL GRUPPO: Le persone vicine hanno il grande potere di esercitare una forte influenza, ormai è risaputo. Questo significa che se un buon numero di persone la pensa in un certo modo si sarà portati, più o meno inconsciamente, a fare lo stesso. E questo è vero a maggior ragione se queste persone fanno parte di un gruppo importante per sé, al quale si sente di appartenere. Vi è quindi una sorta di pressione al pensiero condiviso che inevitabilmente avvicina ad un modo omologato di percepire la realtà.
EFFETTO ALONE: Sicuramente ne avrete già sentito parlare. Si riferisce ad una estensione di un giudizio, partendo da una mera caratteristica che riguarda la persona, un oggetto o una situazione. Per quanto riguarda il senso comune si potrebbe dire che quando un’idea, un pensiero arriva da una persona considerata autorevole aumenta la probabilità di ascoltarla, e anche quella di valutare credibili le parole e quindi far proprie le idee ed i pensieri. Inoltre, quando una persona viene considerata autorevole in un qualche settore, attraverso un automatismo mentale, lo diviene anche su altri che però potrebbero non essere la sua specificità.
BIAS DELLA DISPONIBILITÀ: Questo ha molto a che fare con i mass media e l’informazione in generale, sia quella veicolata dalla tv e i giornali, ma anche quella che passa via web attraverso i social network. Maggiore è l’esposizione ad alcuni messaggi maggiore sarà la probabilità di ritenerli veri. Da un certo punto di vista è come se, ritenessimo importanti e veritiere le informazioni più disponibili , quelle più frequenti, al di la della loro reale fondatezza. Tanto più un’informazione diventa familiare, tanto più entrerà a far parte del proprio modo di pensare o talvolta, anche del proprio sistema valoriale.
BIAS DELLA CONFERMA: La nostra mente è pigra, molto pigra. Per questo motivo è portata a cercare informazioni che confermino quelle già presenti in memoria piuttosto che quelle nuove. Queste infatti prevederebbero un ragionamento ed una messa in discussione che risulterebbe per la nostra mente troppo dispendiosa in termini di energia. Le frasi di senso comune sono di fatto quelle che si ascoltano più di frequente già sin da piccoli, quindi in fondo, fanno parte di ognuno di noi. Si tenderà quindi a cercare tesi a loro sostegno piuttosto che contrarie. In più sono superficiali e generalistiche, per questo motivo facilmente confermabili.
Curiosità comportamento umano
Perché dimentichiamo il nome delle persone appena conosciute?
“Piacere Francesca”- “Piacere mio”
E poi, dopo nemmeno un secondo ci si domanda…”Come si chiamava già?” “Federica?” “Floriana?”.
Ammettiamolo, capita praticamente sempre e praticamente a chiunque.
A dispetto di quanto si possa pensare, non è mancanza d’interesse verso la persona che ci si presenta, ma è un fenomeno del tutto normale, che risente di altri fattori collegati a meccanismi mentali davvero sorprendenti.
Appena si conosce una persona nuova infatti, la mente è portata a focalizzarsi maggiormente su quelli che sono gli “aspetti visivi” ovvero i tratti somatici: le labbra, gli occhi, il naso. Si è concentrati sull’odore, sui movimenti. Insomma, su di una serie di elementi che la nostra mente, al fine della “prima impressione” ritiene molto più importanti del nome. Pensate un po’ quale fatica deve fare il cervello per processare in pochi attimi tutti questi elementi e per crearsene poi un’idea, la classica prima impressione, appunto. Ecco tutto ciò che ritiene non utile a questo fine, viene totalmente rimosso.
Il nostro cervello però non è solamente concentrato sull’altra persona, ma anche su di sé. Si, perché consapevole di tutti i processi prima elencati, sa che la nostra nuova conoscenza farà altrettanto, cercando di farsi una prima impressione di noi. La nostra mente quindi, si attiverà al fine di farci comportare nel miglior modo possibile, evitando ogni rischio di goffaggine.
Perché, come giustamente sosteneva Oscar Wild: “Non c’è una seconda occasione per fare un buona prima impressione”.
In ultimo, ma non meno importante, i nomi di persona, non attivano un correlato di immagine nel cervello. A differenza di nomi comuni come: mela, gatto, surf eccetera, i quali udendoli o nominandoli, attivano inevitabilmente un’immagine mentale, il nome di persona non ha questa prerogativa, di conseguenza è più difficile da ricordare, non avendo un ancoraggio “visivo” che possa aiutare la memoria a promuoverne il ricordo.
Se la nuova conoscenza si presentasse dicendo “Piacere sono Francesca, e pratico atletica leggera”. Sicuramente ci si ricorderà quale sport pratica…ma non che si chiama Francesca. Provare per credere.
Perché ci piace spettegolare?
“Mi raccomando, non dire a nessuno ciò che ti sto per dire!” “Sai che la tizia, ha fatto quello e quell’altro?”.
Che spettegolare piaccia o no, almeno una volta nella vita tutti abbiamo spettegolato. In una forma un po’ diversa lo facciamo fondamentalmente ogni giorno sui social, quando incuriositi guardiamo quello che postano amici e amiche.
Si tende a considerare il pettegolezzo come qualcosa di “femminile” e con accezione negativa, la realtà emersa da alcuni studi invece, è ben diversa. Dietro a tale comportamento infatti, si celerebbe un desiderio di creare legami. Nel momento in cui si confiderebbero segreti ad un altra persona, si creerebbe inevitabilmente con la stessa, una sorta di legame basato sulla fiducia. L’essere umano, è un essere sociale, il bisogno di relazioni è un bisogno primario…sarebbe quindi disposto a qualunque cosa pur di creare rapporti…anche a spettegolare.
Piacciamo di più, dopo che ci hanno fatto un favore.
Conosci l’ “Effetto Ben Franklin”? Questo effetto riguarda un aspetto psicologico piuttosto interessante, secondo il quale, se vuoi piacere a qualcuno, devi chiedergli di farti un favore. No, non hai capito male, è proprio così. Per dartene una prova, ti racconterò la storia di come è stato scoperto l’ “Effetto Ben Franklin”.
Benjamin Franklin, importante figura della storia, inventore del parafulmine, membro tra i fondatori degli Stati Uniti, all’interno dell’Assemblea Legislativa, aveva un ferreo oppositore. I rapporti tra i due erano piuttosto aspri e nulla sembrava poter mitigare l’ormai conclamata antipatia.
Il colpo di genio di Franklin, fu quello di chiedergli in prestito un libro notato all’interno della sua biblioteca. A quella richiesta, colui che fino a quel momento indossava le vesti del più acerrimo avversario, divenne ben presto un amico. Egli infatti si sentì lusingato da quella richiesta tanto da iniziare a nutrire profonda stima nei confronti di Franklin.
“Sii educato con tutti, socievole con molti, intimo con pochi, amico con uno soltanto; nemico con nessuno.” Benjamin Franklin
Procrastinazione: la trappola del 'lo faccio dopo'
Procrastinazione. Un termine inflazionato da un po’ di tempo a questa parte. E non è dato positivo se si pensa che quando si parla di procrastinazione, si parla di rimandare, rinviare un impegno, un lavoro, un dovere, ad un secondo momento.
Ma…il detto non era: “non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi”? Questo è vero in teoria. In pratica, è ormai noto a tutti, che, in molti casi, si preferisce rimandare, piuttosto che dedicarsi ad una qualche faccenda; specie se non considerata piacevole (come per esempio stirare i panni). Sfoggiando un altro proverbio, è proprio il caso di dire: “tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare”.
Perché è forte la tendenza a rimandare?Diciamocelo francamente. Pulire casa non è piacevole quanto fare una passeggiata o guardare la propria serie tv preferita.
La procrastinazione sarebbe un modo per “evitare” di fare quella determinata cosa, che proprio non piace. Sicuramente quindi, è questione di piacevolezza dell’attività che si deve svolgere, ma non solo.
Alcuni studi hanno infatti, cercato di fornire una spiegazione più approfondita e “scientifica” al classico :”lo faccio dopo”.
All’interno della nostra mente vi sarebbero due entità, “due persone”; un sé presente e un sé futuro. Immaginate queste “due persone” come la classica figura allegorica del diavoletto e dell’angioletto sulle spalle del povero malcapitato che si trova a dover scegliere tra i consigli opposti che gli vengono suggeriti. Ecco, il malcapitato potrebbe essere ognuno di noi, ogni volta che ci si ritrova a decidere tra: lo faccio ora, o lo faccio adesso?
Il sé presente è alla ricerca continua di una gratificazione immediata, che richiede con forza. Il sé futuro invece è orientato al domani, ai benefici ottenibili nel lungo termine. Queste due entità sono in continua contrapposizione, e non sarà sicuramente una sorpresa, sapere che tra i due, chi gode di maggior potere è proprio, il sé presente. Tutto ciò che risulta temporalmente lontano dal sé presente non risulta degno di attenzione, al contrario dei benefici immediati.
Il sé presente è alla ricerca continua di una gratificazione immediata, che richiede con forza. Il sé futuro invece è orientato al domani, ai benefici ottenibili nel lungo termine. Queste due entità sono in continua contrapposizione, e non sarà sicuramente una sorpresa, sapere che tra i due, chi gode di maggior potere è proprio, il sé presente. Tutto ciò che risulta temporalmente lontano dal sé presente non risulta degno di attenzione, al contrario dei benefici immediati.
Tutto questo produce un risultato, ovvero, tutte le soddisfazioni e le ricompense future non impattano così intensamente come i benefici e i vantaggi del momento.
Cercherò di spiegarmi meglio con un esempio. Tutti siamo a conoscenza che un corretto stile di vita, un’alimentazione sana e un costante esercizio fisico sono in grado di prevenire problemi di salute futuri come diabete, malattie cardiache eccetera. Eppure quando si decide di seguire tale stile di vita, non lo si farebbe tanto per prevenzione, quanto più per mantenersi in linea evitando il sovrappeso. Per piacersi guardandosi allo specchio. Com’è possibile notare…sono benefici immediati. Ecco confermata la regola che il sé presente è più “potente” del sé futuro. È infatti inverosimile che per esempio all’età di vent’anni si decida di mangiare sano e fare attività fisica per evitare il diabete a sessanta.
Qual’è il vantaggio del non procrastinare?
Ti svelo un segreto, nel momento in cui stai procrastinando, soffri. E questo non lo dico io, ma importanti studi proprio in questo campo. L’attività che si rimanda rimarrebbe come un stridente sibilo di sottofondo nella propria mente, come a ricordare il proprio dovere. Si proverebbe quindi più sofferenza nel procrastinare che, per quanto poco piacevole possa essere il dovere, nel momento in cui veramente si agisce portandolo a compimento.
Per “ingannare” il nostro non-alleato, sé presente, esisterebbero alcune semplici strategie da poter mettere in atto. Strategie queste, che hanno tutte un denominatore comune: far leva sui benefici futuri e non del presente.
A) Rendi immediati i benefici che sarebbero a lungo termine.
Per riuscire in questo, è buona regola fare un’attività per te piacevole, mentre fai ciò che tendi a rimandare. Se per esempio, è tua abitudine rimandare l’esercizio fisico perché non trovi piacevole, prova a svolgerla ascoltando la tua musica preferita.
B) “To do list”
Programma in anticipo i tuoi impegni. Prendi carta e penna e inizia a stilare una lista di “cosa da fare”, alternando quelle più piacevoli, a quelle meno. Assegnando anche una tempistica ipotetica di svolgimento delle varie attività.
C) Elimina le distrazioni
Quando inizi un’attività, via lo smartphone, via il computer (a meno che non ti occorra per svolgerla) e concentrati su ciò che devi fare. Ti consentirà di portare a termine il compito senza il rischio di doverlo finire in un altro momento, a causa del tempo perso nelle distrazioni.
D) Da valore a ciò che devi fare
Trovare un obiettivo, ma sopratutto un valore, alle attività che si devono fare, aiuta ad aumentarne la motivazione. Sarà così più semplice attivarsi per iniziare a farlo concretamente; perché dopotutto, la vera difficoltà sta nell’iniziare.
Ogni volta che ti accorgerai di star procrastinando, chiediti sempre: perché fare questo compito potrebbe essere importante?
…E se proprio non riesci a far a meno di procrastinare…perdonati.
Si hai capito bene, perdonati. Non essere troppo severo/a con te stesso/a, alcune ricerche hanno dimostrato che il perdono avrebbe un effetto benefico ed eviterebbe di cadere nella trappola della procrastinazione in futuro.
“Prenditi tutto il tempo, ma non lasciare che il tempo si prenda tutto.” (Massimo Gramellini)
Genitori e figli: la paura di sbagliare
Come sosteneva Freud, “fare i genitori, è il mestiere più difficile in assoluto”Tale affermazione, non può che ricevere consensi.
Non esiste infatti scuola, e non esiste un vademecum che possa insegnare come essere bravi genitori. Esistono regole che possono essere più o meno trasversali, ma poi in fondo ogni bambino è unico, ogni relazione genitore-figlio è unica, e le regole, non possono di certo seguire questa prerogativa di unicità.
Ma poi, essere “bravi genitori”, esattamente cosa significa?
“Essere bravi genitori”, non è un concetto uguale per tutti. Così come non vi è una definizione univoca e universalmente accettata. Al desiderio di essere un bravo genitore, vi è però un razionale di fondo: la paura di sbagliare. La paura di commettere errori nella relazione con i propri figli/e.
Come anche sostiene la psicoterapeuta Stefania Andreoli, “genitore fa rima con errore”. Questo per dire, che dall’errore è impossibile esimersi. Siamo esseri umani e quindi imperfetti. Tale imperfezione si riverbera inesorabilmente, nell’arte di essere genitore.
Sbagliare non è un problema, a patto che si commettano sempre errori diversi. È opportuno essere creativi nel sbagliare ed evitare la reiterazione.
L’errore poi, non è qualcosa di permanente. Si può correggere, riscrivere. Nel tempo quindi ci saranno occasioni per rimediare, occorre solo essere abili nel coglierle. Così facendo, quello sbaglio commesso verso il proprio figlio/a all’età di 3 anni, avrà poi modo di trovare la resa dei conti a 8 o a 12.
Con tale consapevolezza, la vita diviene più leggera, ariosa, piena di fiducia e speranza che si poi si sistemare, correggere sempre. E questo è terapeutico.
Quando si parla di relazione, in particolare di quella genitori e figli, l’amore e il rispetto per l’altro, sono elementi necessari.
Un grazie, uno scusa, un mi dispiace sincero, pronunciato da un genitore ad un figlio/a, nel momento in cui si accorge di aver commesso un errore, è di vitale importanza. Dirlo col cuore, con la dignità che si riserva ad una persona in quanto essere umano. Prima ancora di essere rispetto, è terapeutico. Questo perché, che nelle relazioni ci si ammala e nelle relazioni si può guarire.
Il genitore deve volere bene, bene.
Molto spesso i genitori si preoccupano di quale sia l’età giusta per iniziare a svezzare il proprio figlio. Se sia corretto o meno dormirci insieme, nel letto matrimoniale. In realtà, l’errore non è tenerlo con sé nel lettone piuttosto che nel lettino. Non è concedergli 2 caramelle in più, anziché due in meno. Non sono questi gli errori che fanno di un genitore, un “cattivo genitore”.
L’errore è quando vuoi bene, male. È tutta una questione affettiva. Voler bene bene e voler bene male, sono due competenze diverse (Andreoli, S).
La verità sull’essere “bravi genitori” è che, a meno che non vi siano gravi psicopatologie da compromettere severamente l’equilibrio psicologico, si è sicuramente “bravi genitori”. Che fanno degli errori, si, ma che hanno la capacità di pensarci e chiedere scusa.
In fondo, non è tanto importante ciò che si fa, ma l’intenzione che ne è alla base.Se si possiede l’abilità di spiegare le motivazioni in modo credibile, che diano il senso che quella determinata cosa, è stata fatta nella totale consapevolezza di una motivazione che la sostenesse.
Quindi va bene quasi tutto, purché abbia un motivo, un razionale. Per ciò che non va bene, invece, occorre chiedere scusa, sempre. Un “bravo genitore” quindi, deve sentirsi iper-responsabilizzato nel riconoscere i propri errori e scusarsi col figlio/a, ogni volta che si ravveda necessità.
Voler bene bene, cosa significa?
Da un certo punto di vista è inspiegabile. Si può forse captare, ma non spiegare. Si potrebbe sinteticamente dire che sia la differenza tra amore sano e malato.
Voler bene, bene, significa essere “bravi genitori”, che a sua volta significa sbagliare e chiedere scusa.
Ad ogni personalità...il suo colore
Caratteristiche di personalità e colori sono in forte relazione. È qualcosa evidente fin da piccoli, quando si è chiamati a scegliere i colori per i propri disegni. Se ci pensate bene, quando si tratta di vestirsi, o di dipingere le mura di casa, la scelta dei colori ha sempre un orientamento che è tutto, fuorché casuale.
Ognuno di noi ha un proprio colore che preferisce agli altri, eppure, quando viene chiesto il motivo della scelta, nessuno sa darne una risposta.
Esisterebbe quindi una sorta di relazione, di vincolo tra la persona e il colore prediletto, come se quest’ultimo fosse in grado di rivelare qualcosa della sua personalità; anche lati più nascosti.
L’ esistenza di una branca della psicologia: la “psicologia del colore”, avvalorerebbe questa tesi. Essa si occupa di studiare le relazione tra colori e personalità ed evidenzia che, in generale, i colori caldi sono associati ad un carattere estroverso, allegro, socievole, sicuro delle proprie capacità. Al contrario quelli di tonalità fredda, sono più apprezzati da persone introverse, tendenti alla tristezza e timide.
Vediamoli insieme nel dettaglio.
ROSSO Il rosso un colore ambivalente, associato alternativamente all’amore e alla passionalità oppure all’aggressività e alla rabbia . È collegato alla passione, all’istinto. Simbolo di energia mentale e fisica; ma anche dell’erotismo. È il colore delle emozioni forti.La persona attratta dal rosso, gode tendenzialmente di una forte autostima ed una forte passionalità; dotata inoltre di una personalità forte e strutturata. Un carattere vivace, esuberante, competitivo, forte di un buon rapporto con la sessualità. Tale esuberanza potrebbe però avere il lato negativo di trovare difficile contenere le pulsioni e l’istintività. Inoltre, spesso la persona amante del rosso, pecca di presunzione.
GIALLO Come per il rosso, la persona che predilige il giallo è vivace, estroversa, entusiasta, passionale e carismatica. Ha però sfumature più intellettuali, e tende ad esprimere la propria energia a livello cognitivo e concettuale. Il suo cavallo di battaglia sembra essere una fervida immaginazione.Il giallo indica un’inclinazione alla comunicazione e un’apertura alla novità. Chi lo ama, sono persone che generalmente hanno grandi aspettative sul futuro. Presentano una tendenza a ricercare approvazione e ammirazione da parte delle persone, ad essere al centro dell’attenzione; questi rappresenterebbero i punti deboli.
VERDE Il verde è colore considerato freddo, complementare al rosso.Indica equilibrio, costanza e compostezza. È anche il colore della tranquillità e della calma, e simbolo dell’amore per la natura.Tendenzialmente la persona che lo sceglie come suo preferito, è matura, perseverante, abitudinaria; necessita di impressionare e far bella figura agli occhi altrui.Spesso però la persona può peccare di eccessivo individualismo, superstizione ed estrema gelosia.
BLU Il blu è un colore freddo, è il colore del mare e del cielo. Simboleggia riflessività, spiritualità, una sorta di tendenza all’ introversione ed anche alla malinconia.La persona che predilige il blu sarà generalmente una calma, tranquilla incline alla meditazione. Ecco perché tenderebbe ad evitare ambienti rumorosi, caotici, e molto affollati.L’effetto negativo che una personalità con tali caratteristiche può avere, è quello di mancare di socialità, ed essere quindi deficitaria nella qualità e quantità dei rapporti sociali. In genere infatti risultano poco intensi, superficiali. Inoltre può esservi una predisposizione alla depressione a causa dell’eccessiva sensibilità.
VIOLA Il viola è colore secondario ottenuto dall’unione del rosso e del blu, considerato colore della spiritualità. È associato alla quiete, alla magia, al silenzio. Le persone che prediligono questo colore sono tendenzialmente empatiche, inclini alle relazioni sociali. Originali ed eccentriche, con estro talvolta innaturale, che mettono in campo solo per essere apprezzate dalle persone che le circondano. Vi è quindi un desiderio ed una ricerca di approvazione e accettazione quasi morboso. Caratteristiche queste che portate allo stremo, possono rendere la persona impacciata e incapace di regolarsi a livello emozionale, oscurando altresì la razionalità.Il lato negativo di ciò potrebbe riflettersi in una perdita del contatto con la realtà e senso della concretezza.
MARRONE Il marrone è colore della terra. Associato alla maturità, alla fertilità ed alla concretezzaLa persona che sceglie il marrone sarà tendenzialmente pratica e matura.Un eccesso di queste caratteristiche però, potrebbero rendere la persona poco empatica e fredda sul piano emozionale.
ARANCIONE L’arancione è il colore della positività. Simboleggia serenità, crescita, rinnovamento ed energia.La persona che ama il colore arancione è tendenzialmente adeguata al contesto e alla situazione che sta vivendo. Una persona aperta e socievole. L’arancione deriva infatti dall’unione del rosso e dal giallo: che si traduce in volontà di espressione della propria personalità e vivacità, talvolta veicolata da un linguaggio corporeo, altre intellettuale.Questo denota anche una padronanza nell’espressione emotiva ed in perfetta armonia con ciò che la circonda. Tale equilibrio rende la persona capace di “cose fuori dal comune” anche se sempre ben ponderate.Il difetto potrebbe scaturire da una commistione di curiosità e concretezza, che sfocia nel narcisismo, e quindi in mancanza di empatia e attenzione nelle persone vicine.
BIANCO Il bianco è il colore dell’innocenza e della purezza. Il bianco è ciò che resta di non colorato sul foglio, nei disegni dei bambini, come a simboleggiare uno spazio che resta disponibile agli altri Indica quindi una predisposizione alla relazione. Esprime fiducia nelle persone e speranza per il futuro. Indica saggezza e apertura ad ogni possibilità.Le persone che prediligono questo colore sono in genere fataliste, creative e ricche di immaginazione. Nutrono un forte desiderio di cambiamento e un’ inclinazione ad accogliere la novità. Di contro, chi ama il bianco è tendenzialmente una persona indecisa, infatti scegliere il bianco come colore preferito è come dire “scelgo tutto” e “scelgo nulla”. Inoltre l’eccessiva fiducia negli altri può rivelarsi spesso ingenua, conducendo ad illudersi facilmente.
NERO Il nero in fisica è il colore che assorbe tutta la luce e i colori; vedendo tale peculiarità da un punto di vista emozionale quindi, assorbe tutte le emozioni. Il nero nella nostra società è associato a eventi luttuosi, alla morte. Il nero è il colore della notte, del buio, in un certo senso…della paura. La persona che predilige questo colore è generalmente misteriosa, tenace e con forte senso del sacrificio. Dotata di ferree convinzioni circa la società ed il futuro, che possono determinare anche furiose ribellioni. Cerca sempre di stupire gli altri ed ha uno spirito da eterno adolescente. I lati negativi di questi aspetti, è che spesso sfociano in atteggiamenti estremisti, che non prevedono possibilità di negoziazione e confronto.
Qual'è il tuo motivo di orgoglio?
È giusto chiarire subito che in questo caso si parla di orgoglio, inteso come fierezza nei confronti di ciò che si è, si ha, si fa eccetera. Per capire meglio cosa intendo dire, utilizzerò come aiuto un esempio.
Due giovani studenti, Jerome e Mark decidono di seguire un Master all’estero.Durante una lezione di psicologia, viene chiesto loro quali fossero le cose di cui andavano orgogliosi nella propria vita. Il primo, Jerome, risponde alla domanda facendo riferimento al luogo in cui è nato, e parla quindi delle personalità celebri della storia, dell’arte, della letteratura del suo Paese. Dice inoltre di essere orgoglioso della tradizione culinaria del suo Paese e di tutti i monumenti storici presenti.
La professoressa e con lei, anche gli altri studenti, appaiono essere positivamente colpiti nel vedere il compagno così soddisfatto.
Alla medesima domanda Mark risponde invece molto semplicemente, di essere orgoglioso del percorso di studi che ha fatto, di tutto ciò che ha imparato nel corso di esso. Alla medesima domanda Mark risponde invece molto semplicemente, di essere orgoglioso del percorso di studi che ha fatto, di tutto ciò che ha imparato nel corso di esso.
Ora invece farò una domanda a te. Secondo il tuo parere, chi ha più ragione ad essere orgoglioso? O meglio, quale delle due risposte apprezzi maggiormente, e perché?
Ricordi la lunga lista di cose delle quali Jerome andava fiero? Ecco, derivano tutte dal caso. Sono determinate dal fatto che Jerome sia nato in quel preciso Paese, il che è semplicemente attribuibile al fato…non è qualcosa che ha ottenuto per qualche suo merito, giusto?
Inoltre nell’elenco non vi è accenno ad alcun obiettivo personale che è stato raggiunto, anche piccolo ed insignificante che possa essere; qualcosa che abbia richiesto un certo grado di impegno e di tempo investito da parte sua. Questo mette in luce il fatto che non vi sia ombra di un suo contributo in quello di cui va orgoglioso, il che fa pensare che non abbia raggiunto obiettivi personali e che questo non lo renda soddisfatto del proprio percorso fino a quel momento.
Mark al contrario, mostra di essere fiero di qualcosa in cui lui stesso è stato protagonista: il suo percorso di studi. È qualcosa che è stato determinato da lui, in cui vi ha investito tempo, denaro ed impegno. Non è importante quanto modesta sia per gli altri, quella “cosa di cui andare orgogliosi”, importa il valore che ha per la propria persona.
Ognuno infatti, in base alla propria direzione di vita, ha diversi progetti, obiettivi ed ambizioni, che se raggiunti, meritano di essere motivo di orgoglio. Perché? La risposta è semplice, perché hai contribuito personalmente per arrivare a quella determinata meta. Se sei li, è merito tuo.
Purtroppo però, ancora oggi molte persone nella nostra società, rispecchiano l’esempio del nostro Jerome, infatti i loro motivi di orgoglio sono legati a qualcosa di esterno a se stessi…qualcosa per cui non si ha contribuito attivamente.
Intendiamoci, non c’è nulla di male nell’essere felici se la tradizione culinaria del proprio paese è apprezzata nel mondo, o se i monumenti sono ammirati da migliaia di turisti. È giusto tramandare la storia e ricordare tutti i personaggi che hanno avuto un impatto positivo su di essa, ma non sarebbe più bella la sensazione di orgoglio per un proprio obiettivo personale raggiunto?
Sii orgoglioso di ciò che hai ottenuto per meriti tuoi, di qualcosa in cui hai offerto un tuo personale contributo. Tutti noi abbiamo un lavoro, passioni, hobby, qualcosa in cui siamo particolarmente abili e che ci stimola ad ottenere sempre migliori risultati.
Non serve essere i migliori per essere fieri di qualcosa, chiunque con costanza ed impegno, può arrivare a raggiungere gli obiettivi prefissati, senza necessariamente eccellere.
Questo potrebbe certamente essere motivo di orgoglio e perché no…di vanto.
E tu…di cosa sei orgoglioso/a?