C’è un paradosso affascinante che tocca quasi tutti noi: desideriamo con più intensità ciò che non possiamo avere.
Quella persona inarrivabile, quella vita che immaginiamo perfetta, quel progetto che sembra sempre un passo oltre la nostra portata… li inseguiamo, li idealizziamo.
Eppure, quando qualcosa di reale, concreto e accessibile si avvicina, capita di sentire l’impulso di sabotarlo o ridimensionarlo.
La vera domanda, allora, non è solo: “Perché desidero l’impossibile?”, ma piuttosto:
“Che cosa mi protegge, questo desiderio?”

Il desiderio come distanza protettiva
Freud lo diceva chiaramente: il desiderio non è fatto per essere soddisfatto. È una spinta che alimenta la mancanza, mantenendoci vivi… ma sempre un po’ lontani dal centro.
Desiderare ciò che non possiamo avere ci mantiene in un equilibrio noto: l’attesa, la tensione, la speranza. È un terreno familiare, che rassicura.
Il paradosso è che desiderare l’inaccessibile spesso diventa un modo per non affrontare ciò che invece potremmo davvero avere.
Perché il possibile — quello vicino e tangibile — richiede responsabilità, scelte, trasformazioni.
Esempi?
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È facile innamorarsi di chi non ti corrisponde. Più difficile è aprirsi a chi ti vede davvero.
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È semplice sognare una vita radicalmente diversa. Molto più impegnativo è fare quella telefonata che può avviare un cambiamento concreto.
Quando il desiderio è più sicuro da lontano
Lacan parlava di come il desiderio sia sempre “il desiderio dell’Altro”. Non dell’oggetto in sé, ma della mancanza che esso rappresenta.
Il punto critico arriva quando ciò che vogliamo inizia a diventare possibile. A quel punto non sentiamo euforia, ma paura: paura di perdere, di fallire… e persino di riuscirci.
Perché se ottengo quello che volevo… chi divento, adesso?
Il desiderio irrealizzabile funziona allora come una zona sicura: è come guardare un tramonto mozzafiato dietro un vetro. Emozionante, commovente… ma senza sporcarti, senza cambiarti davvero.
Il desiderio come protezione dal contatto reale
Lo psicoanalista Christopher Bollas parlava di “oggetti trasformativi”, esperienze o relazioni che, se vissute, ci cambiano in profondità.
Ed è proprio questo il punto: il cambiamento autentico richiede di mettersi in gioco, di abbassare le difese, di rischiare di non sapere più chi siamo.
E spesso questo fa più paura del fallimento.
Così ci rifugiamo nell’impossibile, che diventa un alibi elegante:
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Vuoi pubblicare un libro, ma non invii mai il manoscritto.
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Desideri una relazione stabile, ma ti innamori solo di chi non è disponibile.
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Sogni un nuovo lavoro, ma rifiuti ogni proposta concreta perché “non è proprio quella giusta”.
Non è incoerenza. È protezione emotiva.
Il desiderio come sceneggiatura
Molti vivono dentro desideri inaccessibili come se fossero copioni già scritti. La persona ideale, la vita alternativa, la storia che “poteva essere”… diventano sceneggiature che rassicurano perché mantengono stabile l’identità.
“Sono quella che sogna, che rincorre, che non è mai del tutto felice.”
Uscire da questa narrazione significa abbandonare la zona conosciuta. E a volte stare male in un dolore familiare sembra più sopportabile che aprirsi a una gioia nuova.
Sognare è vitale. Senza desiderio non ci sarebbe movimento.
Ma se il sogno diventa un alibi per non vivere il reale, allora restiamo intrappolati in un eterno “quasi”.
Non tutto ciò che desideriamo è sbagliato. Ma vale la pena chiederci:
“Sto davvero cercando questo… o sto evitando qualcos’altro?”
Perché la paura più grande non è sempre fallire. A volte è avere successo… e dover cambiare.
Ed è proprio lì che comincia la trasformazione vera: non nel rincorrere, ma nel fermarsi, scegliere, e finalmente, vivere.